Geografie
Il metodo Polaroid, per la facilità d’uso e l’immediatezza dei risultati, potrebbe considerarsi l’antesignano della tecnologia digitale. Scatti la foto e la vedi subito, con un lasso di mediazione brevissimo. Le foto di Federica, però, non sembrano frutto di un processo estemporaneo. Sono analogiche fino al midollo, con la loro capacità di scavare il tempo a mani nude, senza artifici o scorciatoie. Concepite in attimi sospesi e sedimentate attraverso un travaglio profondo e doloroso, seppur narrato con leggerezza tutta femminile. Parti gemellari che sembrano risalire al secolo scorso, ritrovamenti da una soffitta polverosa, eppure attualissimi e vitali, sogni antichi mai spenti, caparbiamente rivissuti in un misto di eccitazione e sofferenza, in bilico tra la sfida e la resa, quella linea del dubbio sulla quale ci lambicchiamo tutti, spesso senza vederla. Quanto a riconoscerla e raccontarla, poi, solo i pazzi e i poeti sanno farlo.
I dittici di Federica rivelano la cifra plurale di questa artista, donna, fotografa, mamma, lavoratrice, sognatrice di sogni delicati, di struggente e crudele bellezza. Il lavoro del doppio segue la trama dell’autonarrazione, lo sguardo disincantato di un’altra se stessa, un riflesso materno accorato e devoto, a placare gorghi impetuosi in cerca di pace.
Dare alla luce immagini è farsi madre delle proprie stesse emozioni, pubblicarle è espropriarsene per consegnarle al mondo. Federica racconta di sé, affidando alle sue foto la richiesta più sentita: dare e ricevere amore. Le sue Geografie sono mappe privatissime e universali. Non rappresentazioni in scala, ma mondi compiuti in continua espansione. L’autrice ci offre se stessa alla paziente ricerca di un contenitore, un planisfero dove mettere ordine alle nostre multiformi costellazioni emozionali. Ciascuno può collocarsi nella metà che più sente affine e guardare l’altra con la tenerezza dovuta alla parte di se stessi che non si è scelta, ma che ci è ugualmente cara. Le due foto affiancate sono come gli emisferi cerebrali, indispensabili l’uno all’altro. Così, attraverso questa segmentazione diploide, Federica lascia germogliare nuove configurazioni di Io potenziali, divisi tra passato e futuro, natura e artificio, quotidianità e atemporalità, fiducia e rassegnazione, appagamento e nostalgia, rivelandoci in inedite forme visive la sua più integra e cocciuta delle intenzioni: calarsi anima e corpo in questo flusso turbolento e sfuggente, continuamente in divenire, che è la vita.
(testo di Carlo Riggi)
Che si viaggi nel dentro e nel fuori non cambiano gli strumenti. Le palpebre si aprono ugualmente, come una tasca, a contenere quello che possono. E questo non è molto. Come potrebbe? Le cose capaci di accompagnarci non sono forse le più piccole e fragili? Quelle che sembravano fatte per durare lo spazio di poche ore. Raramente sono sole, più spesso hanno un compagno o una compagna. Si guardano, e nel guardarsi ci ricordano che mai fummo soli e mai esistemmo se non divisi. Così nelle geografie di Federica Zucchini. I suoi dittici sono piccole immagini di devozione familiare. Non contengono santi o martiri né le metamorfosi degli dei. Non assomigliano ad un atlante delle emozioni, quello descritto da Giuliana Bruno in un suo bel libro, fatto di lunghi viaggi, di memorie gloriose di poesia e di pittura, del gioco sofisticato della cultura. Piuttosto ricordano il fazzoletto sdrucito premuto al fondo della tasca del contadino, il panno da cucina ripiegato nella madia, la tenda fuori moda alle finestre, la rete distesa fra le rocce sotto gli ulivi. Per secoli, prima della fotografia, essi furono il regno di visioni aperte all'occhio dei semplici. Visioni che mostravano agli uni i paesaggi interiori degli altri e che riunivano le generazioni estinte a quelle presenti e future. Sono durate finché è durato lo sguardo dei bambini e dei vecchi. Con leggerezza e ostinazione affiorano ancora nei dittici di questo libro.
Federica Zucchini riporta in vita immagini che agiscono sullo sguardo come il cardo che districa il vello della pecora, sciogliendo la matassa degli affetti e dispiegandola alla luce. Perché essa brilli con la potenza della creazione. Sulla tenue patina delle Polaroid affiorano arcipelaghi popolati di animali, reali o scolpiti, di alberi e rocce, in cui il paesaggio e il corpo ritornano elementi. Elementi capaci di essere rimescolati nella fluidità del sogno e di dare vita a esseri immaginari. Aurora che tiene in mano il cavallo di legno, ad esempio. Esso è docile all'apparenza, eppure la sua ombra si inoltra in un abisso di inquietudine. Trasforma la sua mano fragrante nelle membra nervose di un centauro. Si avverte nello sguardo di Aurora come una distanza, l'esitazione che precede il repentino ritrarsi della mano (quasi il gesto del ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio). Il desiderio e il terrore di essere rapiti.
Braccia e mani si protendono al cielo. Sono braccia di ninfe e giovani satiri. Mimano l'attacco delle piante all'estate: l'agave, il fico, il granturco. Piante che feriscono: con la spina acuminata, con la corteccia gonfia di latte irritante, col fitto intrecciarsi delle foglie abrasive. Così i figli nello sguardo di Federica Zucchini: l'amore supremo che ferisce nell'atto di adempiersi. Non è questo il nostro comune destino? Le inevitabili ferite che ci si provoca nell'amore, nella cura dei figli, nell'affetto dei cari. Non assomiglia questo, come Federica Zucchini ci mostra, all'ebbrezza del correre in un canneto, dell'arrampicarsi nudi sul fico in agosto, allo sciogliere i capelli allo scirocco carico di salsedine, alla doverosa e sfiancante cura del campo? Molta estate onirica qui, quasi un sogno estatico che riunisce e rimescola il bello e il brutto del prendersi cura l'uno dell'altro. Sembra di avvertire il fremito sordo della tarantola allo stelo del grano, avida di visioni, come nel Sud perduto di Ernesto de Martino.
In una scena del film Medea, di Pier Paolo Pasolini, appaiono a Giasone, giunto nella città di Corinto, due centauri. Essi non sono che due parvenze del suo antico maestro Chirone, il vecchio e il nuovo centauro, così dicono. L'uno è come Giasone lo conobbe, anni prima, l'altro è un uomo come lui, vestito di una ricca tunica damascata, privo del ventre e delle zampe di cavallo. Solo questo si rivolge a Giasone, il quale chiede: chi siete? E perché lui non parla? Se anche lui parlasse, spiega l'uomo Chirone, tu non lo intenderesti poiché ti sei fatto adulto. Egli parla la lingua delle emozioni e del mito, della potenza degli elementi naturali e del sogno. Solo ai bambini è concesso di penetrare il mistero. Solo essi ne comprendono il linguaggio.
Federica Zucchini ritrae i propri figli come esseri della terra, fatti della sostanza pulsante del mito, e come esseri dell'aria, aurei come angeli, e alati (ali cucite coi capelli canuti di una nonna curva alla luce dei neon?). Al limitare della luce essi si mostrano nell'atto di scostare cortine, tende, sipari. Assomigliano agli angeli dipinti da Piero ad Anghiari, che aprono drappeggi a scoprire la Madonna del Parto. Più volte essa ci mostra il suo sguardo. Impugna una macchina Polaroid, i suoi capelli legati si dispiegano nell'acquamarina del cielo come rami d'un albero, i suoi pensieri invadono le colline come nebbia, i suoi denti sono serrati come un'inferriata alle finestre, il suo desiderio, straniero, è come un'onda obliqua. La macchina fotografica è puntata verso di noi. Non è una vergine cristiana che ci invita nel caldo recinto del suo ventre, ma un'Artemide armata di frecce, un'antichissima signora degli animali. E noi ci acquattiamo fra i cespugli come Atteone per spiare le sue nudità, per svelare il segreto dell'uomo ancora indiviso dalla natura. Il suo sguardo è severo. Conosciamo il mito: un passo falso e siamo perduti. I molti esseri che popolano queste pagine potrebbero attaccarci, sentiamo ai fianchi la pressione delle corna, il pungolo della spina, il pruriginoso bullicame del latte sotto le cortecce. I docili ragazzi dalle dita lunghe e sottili, coloro che ci sfiorarono le palpebre con tanta dolcezza, potrebbero d'un tratto voltarci le spalle, parlare di nuovo la lingua di Giasone bambino e di Achille. E noi, svuotati di tutto, quale centauro potremmo mai interrogare?
(Testo di Alessandro Celani)
Nel mio giardino
Ah quanti desideri si celano dentro i giardini,quante fantasie colorate scorrono perennemente in ruscelli trasparenti!
Io sogno,dentro il mio giardino, con gli occhi aperti.
Vorrei farmi piccola e penetrare nei piccoli universi dei fiori e dei frutti.
Ascolto i sussurri e tutto mi sorprende.
Reminiscenze sparse
Azzurrognole lontananze.
Azzurrognole reminiscenze.
L'azzurro è il colore dei ricordi più lontani.
Tempo grembo
C'è stato uno strappo.
Mi sono fermata.
Nelle pieghe della pelle si è infilato un punto di sutura.
Un punto per andare a capo.
I passi fatti mi ricordano la strada.
Questo tempo fecondo è un grembo che nutre semi e germogli,ricordi speranze e progetti.
A parole mie
Ho rovesciato il mio sguardo come se fosse un guanto.
Con gli occhi chiusi ho visto meglio e di più.
Dentro i solchi scavati col fuoco e col ferro ho piantato i semi buoni di pensieri nuovi,i semi nuovi di pensieri buoni.
L'eterno ritorno
dentro un tempo circolare
Il mio mondo diventa sempre più piccolo.
La casa.
La finestra.
L'albero.
La siepe.
Le orchidee che s'aprono sul davanzale.
La terra sonante sotto i piedi e
un ritaglio di cielo volubile sopra la testa.
Il volo degli uccelli
e una manciata di stelle.
Nel mio immenso piccolo mondo c'è anche questa scala per il cielo.
Ad essa sempre rivolgo lo sguardo,
dentro un tempo circolare
che da me parte e a me ritorna.
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre